bio/critic text

photo by Franz Cimitan

“Si esprime attraverso uno stile eclettico che rielabora le istanze di modernità delle avanguardie dimostrando un’istintiva propensione verso la materia: le accumulazioni di oggetti di uso quotidiano, come anche gli assemblaggi realizzati attraverso vecchi oggetti recuperati trasmettono un messaggio ironico e diventano luogo di prove percettive. I rituali e l’iconografia della civiltà dei consumi passano attraverso l’interpretazione dell’artista, che ne effettua la scomposizione con esiti di ironica e spiazzante paradossalità.”                      

Lucia Majer

"Enrico Bonetto esalta la potenzialità astratta del linguaggio spontaneo dettato dai segni involontari che restano su cartoni di appoggio. Un’arte poliedrica espressa dai piccoli formati a grandi installazioni, dimensione di una mente in continuo divenire in cui ogni realizzazione è superficie in cui si fermano i segni del tempo. Assoluta protagonista potrebbe apparire la materia, in realtà nelle opere intervengono un continuo di elementi che rendono ogni lavoro un prodotto cardinale: i piccoli frammenti sono i risultati pittorici di grandi installazioni e le ‘opere da installare a muro’ fungono da mediatrici poiché intrise di materia, idea, gestualità. Un’importante attenzione è posta all’equilibrio della forme che è anche equilibrio dei toni creando sempre soluzioni omogenee e cadenzate ricolme di organicità emozionale."

 

Anna Soricaro

 

Enrico Bonetto: la trappola dell’oggetto

 

Enrico Bonetto “intrappola” e “connette” tra loro pensieri, emozioni, oggetti.

La sua ricerca-azione vorticosa e caotica, debitamente distante dai parametri di quell’arte che “si crede bella”, evitando di impostarsi su principi di eccedente leziosità e rifugendo da soluzioni iconiche distorte e dissonanti dettate dai dogmi di inapplicabilità e incomprensibilità degli ismi contemporanei, asseconda un fluxus grammaticale limpido e ben sedimentato nella logica precisa di costrutti rievocativi, nella gestuale e ripetitiva addizione di dettagli minori ma intimi, nell’innocenza della visione sentimentale, orientandone la poetica in funzione di un’arte che “si sente vera” e concentra la propria virtus creatrice sull’oggetto (anticipando il suo farsi oggetto artistico) con il quale instaura dialoghi profondi aprendolo ai potenziali livelli di esistenza e di sussistenza al di fuori della sua collocazione semantica originaria.

Attraverso l’oggetto Enrico Bonetto abbozza storie immediate e coinvolgenti, impostate su nessi immaginifici la cui semplicità narrativa e l’adozione di registri primitivi sposta l’analisi dal dato mimetico a quello verosimigliante nel quale riconoscere sprazzi di realtà; l’ingannevole facciata di azioni easy, meccanicamente gestuali, riafferma infatti, attraverso l’azione dell’esplorazione empirica dei ricordi, come in gioco di curiose osservazioni fanciullesche, il bisogno di riunificazione armonica di spazio, tempo e materia in nuovi contesti che l’artista avvicina con lo stesso rispetto con il quale si rievoca un pensiero prezioso e lontano, per recuperare decadenti reminescenze emotive e sedimenti psichici improvvisamente bisognosi di ricollocarsi in un presente narrativo che l’artista intende esprimere e condividere.

Forzando o assoggettando la materia Enrico Bonetto individua e circoscrive stadi di naturalezza e di immediatezza che riportano ogni immagine artistica al lento scorrere della vita quotidiana, filtrati da una barriera labile ma presente tra simulazione e dissimulazione, tra prima e dopo, tra vita e morte, intesi come estremi di un percorso reale che non vuole riflettersi nell’in(de)finitezza dell’illusione; infiniti fotogrammi e infiniti sguardi orientati distrattamente sul mondo originano profonde immersioni analitiche, contemporaneamente genesi ed epiloghi di percorsi ispirati da codici esistenziali le cui infinite connessioni psicologiche appartengono all’artista stesso e sono pelle e protezione dalle incongruenze apparenti della vita stessa.

Attingendo abilmente dal vocabolario nouveau réaliste Enrico Bonetto contesta dapprima il reale salvo poi riappropriarsene, lasciandolo emergere sottoforma di esperienze e di vissuti più o meno distanti che diventano passaggi repentini intertestuali secondo propri percorsi logici, lasciando fluire i sentimenti come in una crescita ininterrotta di esseri biologici fagocitanti senza tregua fino a raggiungere gigantismi ipertrofici. Non per nulla l’artista parte da immagini – o porzioni di esse – per inserire poi il prodotto finito, ri-conoscibile e ri-collocabile grazie a continui scambi dialettici, nell’ambiente in scala naturale, costruendo e invadendo lo spazio ben oltre i limiti fisici della tela.

Il tempo, elemento discontinuo ma ciclico, sottolinea, in queste creazioni curiose ed elaborate, la vitalità ritmica delle pulsioni e delle intuizioni che nella mente e nell’occhio dell’artista, subordinati solitamente alla rigorosa pratica quotidiana cadenzata dai tecnicismi e dagli appigli scientifici, rende possibile il superamento del confine tra legge fisica e assioma metafisico, contornando i concetti di libertà e di liberazione all’interno dei quali “nulla è come ci saremmo aspettati che fosse”.

Nel desiderio di stemperare l’elemento drammatico, nell’eccedenza ludica che caratterizza l’azione di Enrico Bonetto, si celano invece tematiche fortemente veritiere; ecco allora che il lirismo dell’elegia cede il posto alla schiettezza disarmante della non-convenzionalità e nella linea ininterrotta dello stream of consciousness affiorano nuovi spunti di conoscenza.

Riportando gli scenari dell’esistenza negli scenari dell’opera – sia essa pittorica, scultorea, fotografica o installativa -  Enrico Bonetto ripensa, ripercorre e penetra il tempo storico del proprio agire; parte dalle sinergie linguistiche delle prime avanguardie artistiche per poi superarle, correggendone gli anacronismi e le sviste storiche, eliminando la spinta perpetua suggerita dal loro valore esperienziale collettivo per recuperare l’autonomia di azione soggettive e potersi muovere in direzione dell’unico punto nel quale esso si accresce di valore, cioè verso stati empirei del pensiero nei quali ci accompagna, concedendoci incontri inaspettati, ricongiungimenti e coinvolgimenti imprevisti con i nostri mutevoli stati dell’io, bambino e adulto.

Le sovrapposizioni polimateriche che talvolta sussistono indipendenti dalla natura stessa del feticcio-oggetto rappresentano la dimensione migratoria dell’intelletto in cui il viaggio unidirezionale incontra e supera consecutivi punti di non-ritorno; i differenti registri linguistici, ben riconoscibili seppur all’interno di un meccanismo di sintesi che ne miscela i sintagmi apparentemente alla rinfusa, veicolano un messaggio eloquentemente neo-dada che prescinde dai codici alti della comunicazione e, ignorando gli eccessi linguistici attraverso l’uso ripetuto di figure retoriche e di costrutti secchi e paratattici, intende l’oggetto intrappolato come concetto-trappola nella cui area gravitazionale raggruppare e ridefinire le potenziali unità logiche di dimensioni creative sempre più ampie e libere.

 

Testo a cura di Gaetano Salerno

Esiste un mondo complementare a quello umano, più che mai contemporaneo, che è il mondo degli oggetti, infiniti, che circondano, completano, forse opprimono la nostra vita.

Enrico Bonetto si muove tra loro e ne intuisce con sensibilità le potenzialità artistiche e poetiche, soprattutto di quelle cose che non sono nate per essere guardate e che vengono infine dimenticate quando perdono di utilità.

Bonetto si guarda intorno curioso e attento,  rivaluta e ridona uno scopo attraverso nuova forma a tutto ciò che consideriamo ormai inservibile o banale.

Gli oggetti scelti vengono assemblati, capovolti, ridipinti ma lasciati riconoscibili nella loro essenza, nella loro funzione originaria eliminando ogni gerarchia tra gli aspetti vari che compongono la realtà.

Anche per questo l'opera di Enrico è così varia, come sono varie le possibilità dell'emozione umana che non può avere un cliché ripetitivo.

I materiali di scarto portano in sé un contenuto sempre molto profondo, legato alla biografia e al suo personale modo di intendere gli oggetti che rivivono così non solo in funzione compositiva ma attraverso la persona stessa dell'artista che ricostituisce e ripresenta nell'opera un ricordo, un'emozione, un'intima porzione della sua vita.

I titoli sono parte integrante dell'opera, sono uno stimolo ulteriore che l'osservatore deve provare per estrarre il possibile senso. Mai descrittivi ma sottilmente ironici, sono rappresentazione linguistica dell'idea che viene presentata con giochi di parole o con richiami alla filosofia e alla letteratura.

L'arte di Bonetto è infine concettuale nonostante o forse proprio perché il risultato è “arte povera” in cui il concetto trasforma ed eleva questi materiali extra-artistici ad artistici pienamente. Ma non un concettualismo freddo fine a se se stesso tanto da fare del concetto opera, ma anzi un pensiero sanguigno fatto al pari di intuizione e di pratica, di poesia e di manualità, di eclettismo e di coerenza.

La sublimazione di questa attenzione vivida verso le emozioni che hanno agito ma che lasciano ancora le proprie traccie è l' easy art, superficie di cartone stesa sul pavimento su cui l'artista lavora. Questa accoglie spontaneamente le intenzioni dell'artista nel mentre la vita dell'opera si va realizzando: schizzi di colore caduti, impronte, sperimentazioni, segni, diventando supporto e testimonianza della genesi dell'opera.

L'artista accetta in ogni momento suggerimenti dalla base stessa, in quanto l'easy art resta in comunicazione con ciò che accade nel luogo di lavoro.

E' opera singola, è composizione d'insieme. Il cui concetto di base nonostante il nome è complesso, è una metafora delle relazioni casuali che esistono tra le cose, non realtà separate in monologhi ma dialoghi, relazioni compositive visive e di spirito.

L' easy art riporta il processo creativo dell'opera, lo stesso impeto, gli stessi colori, i dettagli grafici che vengono prima sperimentati sulla superficie di cartone

Ne deriva un'opera sorella fatta con la stessa genetica dell'opera finale, al quale si lega tanto da poter essere concepita come parte integrante da esporre in corrispondenza.

Enrico Bonetto sa mettere in collegamento cielo e terra, quel cielo popolato di stelle che poste nelle sue opere sono metafore dell'individuo per cui ogni stella è una persona e ogni persona una stella. Quella terra fatta di legno, carta, metallo, colore, vita pulsante e tempo che scorre. Enrico crea la comunicazione tra questi due mondi che si specchiano uno nell'altro, avvicinando le idee alla nostra sensibilità fisica, elevando le opere composte dagli oggetti che incontriamo nel nostro cammino verso un luogo ideale.

 

Giacomo Malatrasi

Ironic artist; intriso di umorismo Dada; permeabile alla denuncia  del consumismo ispirato dalla Pop Art; Artista concettuale; esponente del Nouveau Realisme; Enrico Bonetto sfiora ed indaga tutte queste correnti artistiche: <<Ma non mi riconosco pienamente in nessuna di esse>> precisa, ribadendolo con energia. Siamo di fronte ad un artista “Citazionista” che coglie, sintetizza e propone le tracce di buona parte del percorso artistico del secolo scorso. Difatti, nelle sue opere materiche e di grande impatto emozionale, intenzionalmente si leggono le ispirazioni, le pulsioni, gli stilemi dei maggiori artisti del ‘900, ma sempre interpretati con ironia e con la cifra individuale di Bonetto. Enrico dimostra di aver assimilato le lezioni dei maestri e di saper elaborare una autonomia compositiva che già si riconosce e si distingue nel panorama artistico nazionale. Sicuramente è un romantico ma non nel senso quasi patologico della Sehnsucht tedesca, bensì nella accezione moderna data da Germano Celant,  soprattutto quando: "nel ridurre ai minimi termini, nell'impoverire i segni, per ridurli ai loro archetipi”, usa i materiali ordinari, usati, vecchi, inutilizzati e scartati intendendo così salvarne la memoria e il ricordo. Lavorando egli coglie l’essenza dell’umanità nel momento sublime in cui essa cerca di spiegare il senso stesso dell’esistenza. Siamo davanti ad un nuovo genere artistico inventato da Enrico Bonetto e in continuo ed imprevedibile sviluppo?

 

Beppino Nodelli

Inevitabile l’approccio alla gigante installazione di tre porte bianche intrise di sensi positivi e negativi, ricolme di immagini diversificate applicate con sapiente e calibrato collage.

 

Anna Soricaro

 

ENRICO BONETTO - SINCE 72
“PRODUCT OF”

Il titolo di questa mostra, “Product of”, oltre ad essere il filo conduttore del percorso espositivo, dato che sottolinea ironicamente che le opere sono di produzione dell’artista, è anche in stretta relazione con lo pseudonimo di Enrico Bonetto, “Since 72”, evocativo rimando pop, in perfetta sintonia con quel suo spirito radicalmente ironico che gli fa chiamare il suo studio “factory”. Ricavato da un fienile degli anni’30, volutamente tenuto esattamente com’era, senza nessun restauro con solo una mano di calce bianca che diffonde una sensazione di essenziale minimalismo, lo studio dell’artista rappresenta il suo luogo dell’anima ed è simile in qualche modo ai suoi lavori.
“Product of” è anche il titolo di un’opera, tra le più recenti e mai esposte fino ad ora, che vede come medium il cartone strappato segnato e caratterizzato da scritte, degne per Bonetto di essere elevate a parte integrante del lavoro, che , decontestualizzate, assumono significati “altri”, diventando così opere d’arte in un procedimento di duchampiana memoria.
Tali opere, sostanzialmente degli assemblaggi di oggetti vari che l’artista sceglie e decide poi di far rivivere, caratterizzano da sempre la sua intera produzione. Bonetto utilizza materiali di recupero in quanto sono a portata di mano e non costano nulla, la sua intenzione è quella di fare arte con “niente”, usando scarti, residui abbandonati che a volte nemmeno cerca perché sono loro a trovarlo. In questo senso è neorealista nel linguaggio, poiché attinge al mondo degli oggetti per assemblarli e ricollocarli in un in contesto diverso all’interno del quale diventano portatori di nuovi significati, lasciando fluire la comunicazione come una sorta di flusso di coscienza, creando per lo spettatore spunti di conoscenza e per se stesso una sempre più consapevole autocoscienza. L’artista percepisce le potenzialità evocative e quindi comunicative degli oggetti che sceglie, e assegnando loro nuovi contenuti e nuove forme, quando non sono più “utili”, abbozza storie e nessi immaginifici che lo spettatore è chiamato attivamente a completare.
Altro campo di indagine che appassiona profondamente Bonetto è quello della differente percezione del reale che i vari mezzi espressivi restituiscono. In questo senso risulta particolarmente significativa un’installazione, realizzata da l’artista per SPAZIOTINDACI, che si avvale di vecchie diapositive, ricordi di vacanze con paesaggi e persone, proiettate su di uno schermo in modo tale da risultare totalmente sfuocate, fotografate dall’artista nel momento della proiezione e poi esposte. Il risultato è un immagine volutamente astratta che con il bordo nero (creato dalla luce e dal buio della proiezione durante la foto) restituisce il sapore dei vecchi film. Lo spettatore si trova dunque alle prese con una stanza buia, le cui uniche fonti luminose, oltre al proiettore, sono le foto delle diapositive sfuocate appese alle pareti, i soggetti sono gli stessi, ma la percezione che di essi si ha è completamente diversa. L’artista cambiando il mezzo espressivo filtra e fissa la sua visione della realtà, differente di volta in volta, cercando così di rendere tangibile il suo processo mentale. L’installazione, intitolata “REC”, come il tasto del registratore, in qualche modo suggerisce che i ricordi sono una sorta di registrazione della memoria, in questo caso dell’artista/registratore, che li riproduce (e li rende riproducibili all’infinito) attraverso il filtro della sensibilità personale e li rielabora restituendoci non la realtà, ma la sua visone di essa. In questo senso l’installazione si avvicina in qualche modo anche alla musica, che per Bonetto rappresenta la vera arte in quanto è facilmente replicabile e alla portata di tutti, secondo l’artista infatti il problema attuale dell’arte è la sua lontananza dalla gente, per questioni culturali e anche di costi. Nello scegliere e combinare in maniera nuova e armonica gli oggetti, Bonetto compie un’operazione concettuale che lo accomuna al compositore e lo accosta quindi al suo concetto di arte perfetta, la musica.
La vasta e varia produzione dell’artista corrisponde ad una sorta di bisogno di lasciare, data la consapevolezza del suo essere nel mondo, quante più tracce di sé possibili, in simbiosi con il proprio tempo e in accordo con il suo ambito culturale. In questo contesto si inserisce un’altra installazione, sempre creata dall’artista per SPAZIOTINDACI, dal titolo “POST-IT”, che si compone di 28 foglietti di carta colorati di 28 colori diversi appesi in maniera casuale alla parete. I foglietti non sono scritti, il messaggio deve essere ancora pensato e steso su carta e la negazione costringe lo spettatore ad uno sforzo per completarne il significato. Sono le persone, che mano a mano che acquisiscono coscienza di essere vive,  e consapevolezza del loro essere nel mondo attraverso il pensiero dovrebbero completare l’opera e scrivere il messaggio, lasciando così, finalmente, la loro traccia.

Diletta Biondani

L’IMMAGINE DOPO DI ENRICO BONETTO – SINCE72

Nelle reti televisive analogiche o digitali che si spingono oltre il 9 del mio potente telecomando spesso si incappa in pubblicità di prodotti dimagranti a cui interessa molto ostentare le immagini del “Prima” e le immagini del “Dopo”: prove inconfutabili alla mano è inevitabile l’acquisto. Ebbene io credo in modo davvero sincero che nelle due foto il modello non sia lo stesso e che quindi ci sia un modello prima e un modello dopo. Ma questo è un altro discorso...
Immagine = dal latino “imago, imàginis”. La riproduzione ricreata all’interno di noi stessi delle fattezze, delle sembianze, dall’aspetto di ciò che esiste realmente fuori di noi. Creazione della fantasia. Costruzione, figurazione, rappresentazione fantastica. Impressione rimasta nella mente. Descrizione vivace e colorita. Sembianza. Aspetto. Apparizione. Spettro. Larva. Imitazione, raffigurazione della forma esterna di un oggetto. Disegno. Figura. Sembianza rappresentata: l’immagine di un dipinto. In particolare, detto di quelle fotografiche e cinematografiche, figura proiettata: immagine sfocata. Simulacro.  Effige. Schema. In particolare: oggetto di devozione in forma di cartoncino che reca riprodotta l’effige di Dio o di Santi. (“Dizionario della lingua italiana”, C. Passerini Tosi, Editore Milano, 1969)
Mi piace pensare che l’immagine prima sia pari al significato che il dizionario delle elementari di mia madre attribuisce al termine “immagine”. E che l’immagine dopo sia tutto quello che viene dopo: l’insieme di altre immagini che la mente associa all’immagine prima, l’insieme di sensazioni, emozioni oppure il nulla, il disinteresse, il rifiuto, l’insieme di altre cose che né io né altri né nessun altro saprebbe descrivere, il particolare che rimane, lo sfondo attorno a quel particolare, più particolari. L’immagine dopo è personalissima e nominativa, nessuno ve la ruberà mai: se la crisi porterà ad un crack totale Voi ce l’avrete sempre, forse anche da morti.
Ben inteso, come ci aiuta il dizionario, qui non si sta parlando delle due dimensioni, perché le immagini prima e dopo sono due passaggi consequenziali all’interno della nostra mente (o della nostra anima) quindi partono dalla vista di qualsiasi cosa e quindi sempre in tre dimensioni: un paesaggio onirico, un pacchetto di sigarette schiacciato per terra, un bel culo su un sito porno mentre sfrecciate in autostrada ai 202 all’ora, un sacchetto di monnezza tra altri sacchetti di monnezza, una stanza della Biennale, una pagina di Men’s Health dal barbiere gay-friendly.
Ecco. Ciò che mi preme di più analizzare sono i passaggi, immediati e a distanza di anni, dall’immagine prima all’immagine dopo e in quale modo un artista, qualsiasi artista, riesca ad inserirsi come un hacker e modificarli. Per cui stiamo qui a parlare della mia personale immagine dopo dell’artista “Enrico Bonetto” e di come possa avermela creata orientandomi a spulciare tra le sue opere alla retrospettiva intitolata “PRODUCT OF”, la quale ci aiuta pure a riordinare il suo percorso artistico.
Iniziai a conoscere Enrico Bonetto nell’autunno 2010. Era una giornata uggiosa eccetera eccetera.
PRODUCT OF sembra piacermi perché se ci aggiungi una effe potrebbe significare PRODOTTO FINITO oppure PRODOTTO! VIA! MI HAI ROTTO I MARONI! Così tiriamo pure un buffetto a tutta questa manìa di produzione – macchine – soldi – risultato – crisi – nuovo millennio – escort – cocaina – club dogo.
Come ogni retrospettiva che si rispetti si divide in periodi. E quindi anche il suo percorso artistico si divide in periodi: beh questo è un assioma certamente! Io credo tre periodi: il primo e lungo periodo che potremmo chiamare Antico Testamento, il secondo molto recente che chiameremo Nuovo Testamento, e uno che non c’è. Quindi due periodi e uno che non c’è. E’ ovvio che i tre periodi sono collocati nelle tre stanze della mostra: l’ingresso è l’Antico Testamento, il piano interrato ospita il Nuovo Testamento, mentre nel piano più alto troviamo il periodo che non c’è, così può elevarsi giustamente al soprannaturale, senza raggiungerlo.
Avendo conosciuto l’artista in prima persona e visionato gran parte delle sue opere, la maggior parte delle quali ivi non esposte si premette che il contenuto dei testi a seguire vuole delineare un profilo chiaro del percorso artistico di Enrico Bonetto rimandando quindi inconsciamente anche ad altri lavori che potrete trovare sul sito www.enricobonetto.com, sulle pubblicazioni relative ad altre mostre, su altri siti internet oppure non trovare. In ogni caso le opere esposte ne rimangono il sunto più riuscito.
_Antico Testamento
Il sito dell’artista è molto ampio a riguardo, piuttosto avrebbe bisogno di aggiornamenti sul Nuovo Testamento.
Fatto sta che questo ragazzo nasce e cresce nella campagna periferica del Veneziano limitrofo al Padovano da padre falegname e madre sarta. Dedito a fare un sacco di cose rasentando l’iperattività, non ha saputo resistere a cimentarsi con l’arte durante il periodo della tarda pubertà. Tralasciando i primi tentativi impressionisti si passa direttamente ai manufatti che contano e che hanno destato l’attenzione degli addetti ai lavori.
La passione per i graffitari della street art e per i newyorkesi della pop art, in particolare la manìa ossessiva per Jean Michel Basquiat rivive con gran fervore nei primi lavori, ma proprio la filosofia dell’artista con le treccine si insedia e sarà sposata da Enrico Bonetto per tutta la sua produzione: anche la più recente e di sicuro quella futura. Quella filosofia per cui la libertà viene prima di tutto, l’estetica non conta, nel processo di realizzazione di un opera non ci sono corruzioni mentali né limiti se non quelli propri dell’artista; e la rivalutazione del caso: se cade del caffè accidentalmente proprio verso la fine del lavoro vuol dire che doveva far parte dello stesso. L’immediatezza è in questo senso importantissima per non intaccare la purezza del rapporto artista – opera. Altra grande influenza hanno avuto “Fontana” di Marcel Duchamp e “Merda d’artista” di Piero Manzoni, in quanto qualsiasi oggetto o cosa spostata dal suo consueto contesto a uno nuovo come una galleria d’arte può cambiare totalmente la percezione dello stesso. Men che meno lo spirito artigiano e manuale del padre completa i punti cardine del bagaglio di fondo dell’artista dal quale nascono gran parte delle produzioni dell’Antico Testamento destinate a lasciare il segno.
Lo stile però è unico perché qui Enrico Bonetto ci mette davvero del suo, nella tecnica, nel modo di interpretare queste influenze e di assemblarle, aggiungendo il tema del recupero. Tutte le opere sono realizzate con materiali recuperati, prelevati dal contesto rustico casalingo, dai cantieri edili, dalla strada, dagli scarti delle industrie, dai contenitori dell’immondizia, e consegnati ad un destino ultraterreno, spesso attraverso l’utilizzo delle bombolette, dei pennarelli, delle vernici, delle resine. Il risultato estetico è molto forte e denso: forte nei colori e denso di materiali. Un collage esplosivo di significati ed emozioni, forse troppe, in cui si legge la giovinezza in senso artistico, nel bene o nel male. L’uso delle scritte è a tratti geniale, a tratti sembra voler per forza spiegare qualcosa al suo osservatore.
In ogni caso si parla sempre di opere tridimensionali, per la tecnica del collage e per il collage delle tecniche.
Le opere di questo periodo sono molto dirette e si percepiscono abbastanza facilmente le emozioni dell’artista o il significato principe del manufatto, sia per l’uso più acuto di un colore, sia per l’inserimento di pezzi che diventano simbolici, aspiranti a diventare leggermente spirituali.
I lavori che non esprimono chiaramente un significato sono a mio parere i più validi, i più introversi, hanno una fiamma dentro perché la giovinezza (sempre in senso artistico) li pervade comunque ma non si mostra. Sono potenti ma timidi, potrebbero essere dolci forse, oppure rabbiosi e allo stesso tempo tristi. L’immagine dopo è in questi più personale, multisfaccettata (per dirla alla Pantene), più ricca.
Il modo in cui l’artista modifica i passaggi all’interno dell’osservatore tra l’immagine prima e l’immagine dopo è molto invasivo in questo periodo, nel senso che vi sono evidenti e decise manomissioni. Se fosse un ladro non avrebbe molta fortuna. Se fosse un microchirurgo, avrebbe raccolto denunce in ogni ospedale. Rimane il fatto che riesce sempre a trasmettere sensazioni pure, incorrotte, e nel caso colpisca il segno, questo è destinato ad accaparrarsi uno spazietto nella memoria dell’osservatore, senza mai lasciarselo scappare.
Nota bene: in questo periodo vi si affianca una corrente collaterale parallela al suo lavoro chiamata “Easy Art”. Quando Enrico Bonetto crea all’interno della sua factory di Pianiga (VE), è solito stendere a terra per non sporcare troppo una superficie di cartoni grezzi ondulati in materiale riciclato. Al termine dell’operato rimangono su questo supporto, anche per l’uso di bombolette, una serie di schizzi e di segni in negativo dell’opera realizzata. Ogni cartone è di per sé un’opera: una Easy Art.
_Nuovo Testamento
E qui una piccola svolta per l’uomo, una grande svolta per l’umanità. Il 2011 è un anno importante per l’artista perché inizia con un vuoto. Un vuoto di produzione. Un pieno di riflessione. C’è qualcosa che l’ha un po’ stancato probabilmente. Non riesce più a tirar fuori un’opera al giorno o quasi, come nei suoi periodi migliori. Non riesce perché non ne ha voglia. Stretto tra il suo stile che per anni l’ha affiancato tra alti e bassi della vita, fa fatica a respirare.
La pausa finisce verso la metà del 2011 quando inizia a recuperare pezzi di Easy Art per impacchettare ricordi d’infanzia o di pubertà, oggetti che non avrebbero mai avuto un futuro ma solo un passato, spesso valigette e scatole, soprattutto contenitori con contenuti, a volte anche vecchi quadri. I ricordi, siano essi positivi  o negativi, costruiscono una parte delle nostre anime che col tempo si rafforzano, possono indurirsi, rivestirsi di maschere per corruzioni esterne o per proteggersi da queste. L’anima cambia con le esperienze fatte, i dolori sofferti, le gioie godute. I pacchetti finiti sono chiusi e non si capisce bene cosa portano in grembo. Lievemente colorati, a farla da padrone è il colore del cartone. Grezzo e ruvido come a voler difendersi vantandosi del proprio spessore.
E’ la svolta perché? Perché Enrico Bonetto ha saltato il fosso, ha posto le basi per una sua maturità, si è svincolato da qualcosa che lo stava un po’ opprimendo, si è liberato del superfluo per focalizzare l’essenziale. Puliti dentro, belli fuori. La pulizia, il minimalismo hanno elevato il suo lavoro, rendendo l’immagine dopo più sfocata, nascosta e per questo più intensa, intrisa di nobile purezza. Il numero dei colori diminuito valorizza le poche tonalità rimaste, perché le attenzioni sono tutte per loro. I vuoti assumono più importanza dei pieni. I dettagli vincono. Il significato oggettivo perde.
L’impacchettamento traccia una linea netta di separazione. I lavori successivi celano una potenza diversa che non esploderà mai. Rimarrà lì. Il cartone prima di tutto. Collage meno tridimensionali. Colore se serve. Tempi di produzione ridotti perché non servono. Varietà delle tecniche illimitata. Impegno concentrato sull’uno, tralasciando il tutto.
Questo è un Bonetto a 360 gradi. No limits. Libero. Convinto. Preciso.
L’immagine dopo può essere sexy, flebile e commovente. Spirituale per qualcuno. Amletica per altri. Forse presuntuosa.
Enrico Bonetto, ladro e microchirurgo, ha lasciato la sua strada per avventurarsi in un viaggio senza mete.
_Il periodo che non c’è
Non c’è perché è un viaggio pindarico e non c’è perché chi sono io per collocarlo nel tempo se proprio il tempo ha mischiato le carte?
L’installazione “REC” non esiste. Come non esistono le immagini proiettate. O forse sì? Cos’è quello che vedo? E le foto? E lo spazio? Il concetto di tempo è stato stuprato, maltrattato, analogicamente photoshoppato. Scippato della ragione è l’osservatore. Il caricatore di un mitra vomita i bozzoli: rumore secco e puntuale senza inizio né fine. Surrealismo. Attimi di svenimento.
L’immagine prima non c’è. L’immagine dopo...

Daniele Valente

UNTITLED

 

Vivendo nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’oggetto – e dunque dell’ampliabilità tecnica della sua funzione emozionale – e dovendo affrontare, all’alba di qualsiasi operazione culturale, la questione della replica dell’opera, potenzialmente infinita e svilente, la soluzione fornita dall’artista consiste nel sottrarsi al peso della produzione dell’opera stessa e sottrarre sé stesso alla presenza della propria opera. Il precetto di una forma di fare arte atta a garantire l’originalità inappellabile del prodotto artistico è distaccarsene ancor prima di averne determinato la completezza e ancor prima di averne delineato la struttura. Riponderare da fuori la propria creazione – rinunciando altresì a riconoscerne e garantirne l’autenticità con la propria invasiva esistenza – consente così all’artista di vivere il proprio processo creativo come puro spettatore, come anima libera e svincolata dall’incombenza dell’attestazione del proprio valore. Fuori, tra la folla di esseri guardanti e senzienti, l’artista è un numero, una litote prigioniera della sacra vuotezza, una voce nel coro, ingranaggio di un meccanismo comunicativo al quale egli stesso ha dato la carica. Rifugiarsi nella realtà più accogliente e anonima e laica dell’esternità, allontanarsi dal contesto idealizzato della galleria per guardare da dentro ciò che si guarda da fuori, è però a sua volta un’operazione concettuale che esiste, per quanto lontana dall’ortodossia celebrativa di un volto e di un’identità propria dell’esposizione, nel culto encomiastico di un nome che non compare. L’artista non immola oggetti propri all’arte; esiste, tra lui e i cimeli affissi alle pareti oppure sparsi sul pavimento, il freddo distacco dell’estraneità, grazie al quale l’oggetto artistico diventa oggetto universale, alludendo ad un rapporto sentimentale incodificabile in quanto testimonianza dell’altrui pensiero e dell’altrui produzione. Del mondo della materia, come dell’universo dell’artista, rimane solo un nucleo intuibile ed evanescente che deborda oltre l’atto installativo e performativo, verso la certezza della quotidianità esistenziale. Eliminare perciò la propria orgogliosa presenza, cancellare il titolo facendolo coincidere, concettualmente e sintatticamente e morfologicamente, con la sua inesistenza, evitare di lasciare tracce del proprio passaggio e linee della propria azione vuol dire attraversare senza ritorno la barriera che demarca il sempre più labile confine tra arte e vita, vuol dire abbandonare temporaneamente i campi semantici dell’arte per riassaporare al di qua di un vetro (non più solo metaforico) sensazioni ed emozioni reali, non assiomi verosimili. Oltre il gesto minimale dunque di progettare la propria cancellazione emerge così, da questa operazione antidogmatica, il principio della doppia presenza, l’anelito all’ubiquità che è proprio dell’artista. Presente oltre gli schermi, con la propria assenza e presente, nel qui e adesso di un tempo che scorre e scandisce i tempi dell’arte, con l’anonima assenza. Una fuga biunivoca, quella di Enrico Bonetto - sospesa tra happening, fluxus e arte povera - dalla forma artistica verso la forma umana. Prigioniero di un passaggio (non troppo segreto) tra fisicità e astrazione il cui superamento traduce la tensione dialettica tra la natura servile e liberale dell’arte, tra la poesia dell’intelletto e la violenza della parafrasi. Preferibile alienarsi negli opposti piuttosto che perseguire la menzogna di una giustezza esplorativa unica e conclusa. Nella galleria rimane un tappeto di foglie di un autunno dell’anima, uno sbuffo di borotalco, una porzione di parete circoscritta eppure vuota, una presenza umana, molteplici parole recitate all’infinito. Le foglie, la polvere e la litania trasportate dal vento e dal tempo esistono immateriali e leggere, come le idee. Solo il titolo ligneo, appeso ad un muro e trionfalmente negante anche la sua natura, manifesta la pesantezza del concetto, scomparendo presto oltre la cortina dell’illusione, riconsiderato nella sua tangibilità terrena e corrosa.

 

testo a cura di Gaetano Salerno